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PENSIONI, UNA PROPOSTA DI RIFORMA AL MESE

A fine anno Quota 102 terminerà la sua (breve) vita. E dal 2023 si ritornerà alla legge Fornero, nella sua forma originale. Addio al lavoro a 67 anni di età, o con almeno 43 anni di lavoro alle spalle per gli uomini, 42 per le donne. A meno che, in questi ultimi sei mesi, governo e sindacati non riescano a trovare un accordo.

Riavvolgendo il nastro, nello scorso mese di febbraio, per superare la “rigidità” della legge Fornero, era stata indicata come via percorribile il ricalcolo “tutto contributivo”. Anche per quei lavoratori che rientrano ancora in parte nel sistema retributivo. Paletto che il premier Mario Draghi non ha intenzione di togliere. I sindacati, per nulla convinti sul ricalcolo contributivo si erano comunque detti cautamente soddisfatti, per come si era svolto il terzo tavolo di confronto.

Lo scoppio della guerra russo-ucraina, la crisi energetica e le scaramucce su catasto e concessioni balneari, hanno poi ribaltato le priorità del governo e messo in un angolo il tema pensioni. Tema per il quale il tempo stringe e i sindacati premono perché il tavolo venga riaperto al più presto.

 

L’ipotesi 64 anni. Di fatto, l’apertura del governo nel febbraio scorso riguardava la flessibilità, con la revisione dei coefficienti di trasformazione. Nonché la possibilità di eliminare la soglia dell’assegno sociale per coloro che raggiungono 64 anni di età e 20 di contribuzione. Che è poi già possibilità per chi oggi è totalmente col sistema contributivo.

In altre parole, il governo si era detto disposto a ragionare sull’abbassamento del limite minimo di 2,8 volte la pensione sociale per accedere al ritiro anticipato dal lavoro per chi è nel sistema contributivo (fino a tre anni prima della pensione di vecchiaia). E di estendere questa possibilità a chi ricade nel “sistema misto”, ma è disposto a rinunciarci a favore del contributivo.

Uscire a 64 anni con almeno 20 di contributi comporterebbe una penalizzazione del 3% circa per ogni anno di anticipo. La maggioranza di chi potrebbe utilizzare questa opzione vedrebbe una riduzione dell’assegno non superiore al 10%. I lavoratori in regime misto (che al 31 dicembre 1995 non avevano ancora più di 18 anni di versamenti) potrebbe arrivare anche al 18%. Per i contributivi puri, quelli cioè che sono entrati nel mondo del lavoro dal 1996, si esce a 64 anni con pensioni di almeno 1.311 euro.

Questo limite è stato comunque giudicato troppo alto dai sindacati e il governo potrebbe abbassarlo se si accettasse di applicare questa formula anche al sistema misto (retributivo e contributivo), che è poi il grosso dei lavoratori in uscita: il 90%, per l’esattezza, secondo il calcolo fatto dal rapporto di Itinerari previdenziali. Per loro, la parte retributiva “peserà solo per il 30% sull’assegno” e quindi correggerla non comporterebbe una perdita enorme. In sostanza, la flessibilità in uscita potrebbe realizzarsi sulla scia di Quota 102 (64 anni più 38 di contribuzione), prevista dal governo solo per il 2022, e che diventerebbe di fatto un ponte alla nuova riforma. Rendendola permanente seppure con l’adeguamento automatico all’aspettativa di vita e, come detto, con il metodo di calcolo contributivo.

Sul tavolo però c’è anche la proposta del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che propone un’uscita a 64 anni e 20 di contributi solo per la parte contributiva, ai quali si aggiungerebbe in seguito quella retributiva al compimento dei 67 anni di età.

 

Uscita a 62 anni. I sindacati, possibilità ancora del tutto allo studio, rilanciano la possibilità di negoziare l’uscita dal mercato del lavoro a partire dai 62 anni, salvaguardando la maggior parte della quota retributiva. Visto che mediamente in Europa si va in pensione a 63 anni. Flessibilità, dunque, a 62 anni o, in alternativa, con 41 anni di contributi, a prescindere dall’età anagrafica.

 

Quota 41. La Lega vorrebbe che Quota 41 fosse la risposta alla fine di Quota 102 (proroga a sua volta di Quota 100), che prevede il divieto di cumulo con attività di lavoro (a eccezione dei redditi da lavoro autonomo occasionale nel limite di 5.000 euro annui lordi) e la facoltà di utilizzare la contribuzione mista per raggiungere il requisito contributivo di 38 anni, tranne la contribuzione presente nelle Casse professionali. Come ha scritto Leonardo Comegna sul Corriere della Sera alcuni mesi fa, Quota 41 è attualmente destinata a una fascia precisa di lavoratori, i cosiddetti “precoci”. I requisiti richiesti per accedervi sono i seguenti

* almeno 12 mesi di contributi versati, derivanti da effettivo lavoro (non valgono volontari e riscatti), anche non continuativi, prima del compimento dei 19 anni di età;

* almeno 41 anni di contributi;

* appartenenza a una delle cinque categorie tutelate (disoccupati, invalidi, assistenza a familiari disabili, lavori usuranti, lavori gravosi).


Si può, quindi, accedere a questo tipo di pensione anticipata indipendentemente dall’età, possedendo questi tre requisiti. La richiesta dei sindacati e della Lega, di fatto, è una Quota 41 per tutti. Ma il problema si chiama “fondi”. Nel 2021 l’Inps aveva infatti stimato i costi dell’estensione a tutti di Quota 41 superiori ai 4 miliardi nel primo anno, per poi superare i 9 miliardi dieci anni dopo. Un’enormità.

 

Proposta Inps. Insomma, Quota 41 costa troppo. Ed ecco che allora la proposta fatta nell’ottobre scorso dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico appare più avvicinabile. Soprattutto in un momento in cui il paese si appresta ad affrontare una spesa pensionistica che nel 2023 dovrebbe segnare un +7% a causa dell’inflazione.

L’idea di Tridico è una riforma che preveda un anticipo intorno ai 63 anni per i lavoratori appartenenti al sistema misto. I quali avrebbero così la possibilità di accedere a una prestazione di importo pari alla quota contributiva maturata alla data della richiesta. Per poi avere la pensione completa al raggiungimento dell’età di vecchiaia (67 anni). L’ipotesi, secondo l’Inps, sarebbe “sostenibile" dal punto di vista finanziario con un aggravio di circa 2,5 miliardi per i primi tre anni e risparmi a partire dal 2028. I requisiti sarebbero:

* almeno 63 o 64 anni di età (da adeguare alla speranza di vita, ora cristallizzata);

* almeno 20 anni di contribuzione;

* aver maturato, alla data di accesso alla prestazione, una quota contributiva di pensione di importo pari o superiore a 1,2 volte l’assegno sociale.

La prestazione completa spetterebbe, come detto, fino al raggiungimento del diritto per la pensione di vecchiaia.