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LIQUIDAZIONE DIPENDENTI PUBBLICI, BOCCIATO IL DIFFERIMENTO

Bocciato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 130/203) il rinvio del trattamento di fine servizio (Tfs) per i dipendenti pubblici che hanno raggiunto la pensione. L ‘alta Corte sottolinea che il Tfs è un emolumento per sopperire alle esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana. Spetta dunque al legislatore, tenuto conto del rilevante impatto finanziario causato dall'alt al differimento, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

In concreto, si può dire che viene legittimato ciò che le organizzazioni sindacali affermavano da diversi anni. E cioè, l’esistenza di un diverso trattamento tra lavoratori privati e pubblici. Con un danno per questi ultimi.

 

Un po’ di storia. Una storia italiana che nasce molti anni fa, quando per le solite esigenze di bilancio si decise di differire il Tfs dei pubblici dipendenti portandolo a 15 mesi (12 più tre di lavorazione) nel caso di pensionamento di vecchiaia. E addirittura a 27 (24 più tre) per quello anticipato. Il tutto, ancora peggiorato sotto il governo Monti, che decise di corrispondere il Tfs ai pubblici dipendenti a rate annuali di 50.000 euro lordi.

 

Quota 100. Quando poi fu istituita Quota 100 si pensò, per problemi di bilancio, di corrispondere il Tfs differito non dal momento del ritiro dal lavoro, ma dal raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. Questo ha fatto sì che quanto dovuto fosse liquidato, in certi casi, addirittura dopo cinque, sei, sette o otto anni dal giorno del pensionamento.

Se, per esempio, un lavoratore fosse andato in pensione con Quota 100 a 62 anni di età avrebbe dovuto aspettare i 67, da cui poi conteggiare i 15 mesi previsti per avere i primi 50.000 euro lordi, e aspettare i successivi 12 per percepire il rimanente.

Nella stessa legge che ha istituito Quota 100 era stata poi data la possibilità al dipendente di percepire entro tre mesi dalla cessazione di servizio 45.000 euro lordi tramite istituti di credito, che avrebbero anticipato l’importo con un interesse dell’1% annuo. In pratica, il dipendente avrebbe dovuto pagare interessi sui soldi propri.

Se poi ancora consideriamo che negli ultimi anni l’inflazione è schizzata verso l’alto (nel solo 2022 è stata quasi del 10% e nel 2023 è attualmente intorno al 7%-8%) si può capire come i pagamenti ritardati abbiano danneggiato in maniera consistente i dipendenti pubblici in pensione.