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TFR, MEGLIO IN AZIENDA O A UN FONDO?

Il calo piuttosto pesante dei mercati finanziari nel 2022 non ha risparmiato neppure i fondi pensione. La Covip parla di rendimenti netti in calo del 9,8% per i fondi negoziali (quelli dedicati alla categoria lavorativa di appartenenza), del 10,7% per i fondi aperti e dell’11,5% per i Pip (piani pensionistici individuali) di ramo III. Al contrario, il Tfr si è rivalutato dell’8,3% in scia alla persistente crescita dell’inflazione.

Sorge quindi spontanea la domanda: meglio lasciare la liquidazione in azienda o dirottarla a un fondo pensione?

 

Come funzionano. Il Tfr (trattamento di fine rapporto di lavoro) tenuto in azienda rappresenta una parte di stipendio (6,91%) che si matura ogni mese. E che viene rivalutata ogni anno dell’1,5% (quota fissa) più il 75% dell’inflazione (quota variabile). 

Il Tfr in azienda viene pagato al termine di ogni rapporto di lavoro, mentre quello versato a un fondo è accumulato nella posizione individuale dell’interessato e pagato nel momento in cui si richiede la pensione complementare. L’obiettivo più importante di uno stgrumento previdenziale è integrare la pensione pubblica o una delle prestazioni esigibili prima del pensionamento a determinate condizioni, cioè anticipazione, trasferimento e riscatto.

 

I tempi. Chi inizia a lavorare ha sei mesi di tempo per decidere se versare il proprio Tfr alla previdenza complementare oppure se tenerlo in azienda. Se in questo periodo non effettua alcuna scelta, la sua liquidazione, attraverso il meccanismo del silenzio-assenso, viene automaticamente versata al fondo pensione di riferimento per il suo settore di attività. In questo modo, il lavoratore risulta di fatto iscritto alla previdenza complementare.

Se si sceglie di aderire a un fondo pensione negoziale, legato cioè a uno specifico settore lavorativo (per esempio: commercio, chimico-farmaceutico, metalmeccanico), il versamento del Tfr è obbligatorio. In alcuni casi, se previsto dalle fonti istitutive del fondo, è possibile corrisponderne anche solo una parte e non necessariamente il 100%. Se si opta per l’adesione a un fondo aperto o a un Pip, invece, non è obbligatorio versare il Tfr.

Per quanto riguarda i fondi negoziali o aperti individuati da appositi regolamenti aziendali, il lavoratore iscritto, oltre al Tfr, può depositare anche un proprio contributo mensile, che viene trattenuto direttamente dalla busta paga. Con il versamento di questa quota periodica acquisisce anche il diritto di ricevere un ulteriore contributo da parte del datore di lavoro.

Le quote dei versamenti delle due parti sono fissate nei contratti collettivi di riferimento oppure nel regolamento aziendale e sono indicate nella nota informativa.

 

I rendimenti. Il Tfr, compresi gli eventuali versamenti del lavoratore e dell’azienda, è così accantonato nel conto individuale dell’iscritto. E viene investito nel comparto scelto, in modo da produrre rendimenti. I versamenti e le relative performance saranno poi ripagati sotto forma di pensione complementare.

Si potrà poi chiedere di ricevere la rendita una volta raggiunta l’età per accedere alla pensione pubblica e con almeno cinque anni consecutivi di iscrizione alla previdenza complementare.

 

Non si può tornare indietro. Una volta scelta l’adesione alla previdenza complementare non è più possibile tornare al mantenimento del Tfr in azienda, eccezion fatta nel caso di riscatto totale. La somma accumulata nel fondo può essere richiesta dopo la perdita di lavoro, circostanza che interrompe la permanenza nella previdenza complementare. In seguito, quando il lavoratore verrà nuovamente assunto, potrà scegliere se lasciare il Tfr in azienda, oppure versarlo a un fondo pensione e iscriversi nuovamente alla previdenza complementare.

 

La scelta. Se da un lato è evidente che destinando il proprio Tfr al fondo pensione viene meno la certezza della quota di rivalutazione fissa (quell’1,5% che certamente verrà riconosciuto dall’azienda), dall’altro ci sono almeno due elementi da considerare per compiere una corretta valutazione. E cioè l’arco temporale con cui si confrontano i rendimenti generati dal Tfr in azienda o dal fondo pensione e i vantaggi che si ottengono aderendo a una forma pensionistica complementare.

Vantaggi o svantaggi di natura fiscale, di redditività, di convenienza e facilità nell’utilizzo del Tfr per determinati eventi (acquisto prima casa, spese sanitarie e via dicendo) nonché per costruirsi una pensione integrativa (nel caso venga versato al fondo pensione).

E’ evidente che destinare il Tfr alla previdenza integrativa consentirà al pensionato di domani di disporre, almeno in parte e con buona probabilità, di un tasso di sostituzione (rapporto tra l’ultima retribuzione e la prima rata pensionistica) tale da mantenere quasi inalterato il suo tenore di vita, integrando la prestazione pensionistica pubblica.

 

Il fattore tempo. Il fattore tempo è legato a qualsiasi tipo di investimento. Quando si parla di Tfr e lo si lega alla scelta del fondo pensione, quindi a un risparmio di tipo previdenziale, non si può che assumere orizzonti temporali di medio/lungo termine. Di solito, infatti, si confronta la performance ottenuta dalle diverse forme di previdenza complementare con la rivalutazione del Tfr presso le aziende.

La relazione Covip per l’anno 2021 dice che prendendo come riferimento il rendimento a dieci anni, la rivalutazione del Tfr si ferma all’1,9%, contro un rendimento che oscilla tra il 2,2% e il 5% per le forme pensionistiche complementari. Anche se la rivalutazione del Tfr non è l’unico elemento di valutazione, i dati indicano che anche solo in termini puramente finanziari la scelta di destinare la propria liquidazione al fondo pensione sarebbe stata comunque più conveniente.