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QUARANTENNI, IN PENSIONE SEMPRE PIÙ TARDI E CON ASSEGNI DA FAME

Chi ha oggi 40 anni rischia di andare in pensione a 73 anni, con un assegno “povero”, equivalente agli attuali 300-400 euro. E ai più giovani potrebbe andare anche peggio. A lanciare l’allarme sul tanto discusso sistema previdenziale è uno studio della Cgil. Certo è che lavoretti saltuari e impieghi precari, non vanno per niente d’accordo con la futura pensione.

Un futuro nero. Nel 2035, stando all’indagine condotta dal sindacato, per andare in pensione prima dei 70 anni, o meglio a 69, saranno necessari almeno 20 anni di contributi per avere una pensione d'importo non inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale (circa 687 euro del 2019). Sempre nel 2035, chi va in pensione a 66 anni dovrà invece far valere 20 anni di anzianità per avere una pensione d'importo non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale (1.283 euro del 2019).

Inoltre, sempre secondo le simulazioni, chi ha iniziato a lavorare nel 1996 a 24 anni con un salario annuo di 10mila euro e un part time, se ha avuto un “anno di buco ogni tre lavorati” (cosa abbastanza verosimile), rischia di ritardare l’accesso al pensionamento rispetto all’età prevista per legge, non prima dei 73 anni. Per non parlare della pensione anticipata, l’ex pensione di anzianità, che si può incassare indipendentemente dall’età anagrafica; una volta “sbloccato” il riferimento alla “speranza di vita” stabilita fino al 2026 dalla legge su Quota 100 e Reddito di cittadinanza, l’assegno Inps lo si potrà ottenere in presenza di 45 (o 44 le donne) anni di contribuzione. Una prospettiva a dir poco preoccupante.

Un po’ di storia. L’imperativo categorico degli anni Settanta era quello di conquistare un sistema pensionistico che consentisse una sostanziale equipollenza della pensione rispetto alla retribuzione raggiunta negli ultimi anni di attività.  Così, in base al regime dell’aggancio alle ultime retribuzioni (definito retributivo) gli anni di lavoro precedenti gli ultimi tre, poi divenuti cinque (e dieci dopo le riforme a partire dal 1992), servivano soltanto a determinare, a prescindere dai contributi versati sopra la soglia minima, l’anzianità di servizio, allo scopo di calcolare l’importo della pensione secondo la seguente formula: 2% x n = % della retribuzione pensionabile degli ultimi anni di lavoro.

Il 2% rappresentava il rendimento per ogni anno di servizio,‘’n’’ il numero degli anni: questo meccanismo consentiva di percepire, al massimo, l’80% con 40 anni di assicurazione. Com’è facile comprendere, nell’aver concesso per decenni pensioni non sostenute da un corrispondente supporto contributivo, sta la radice non solo del disavanzo pensionistico, ma anche di gran parte del debito pubblico. A queste regole si aggiunsero le pensioni di anzianità che consentivano l’accesso alla quiescenza in base aun requisito contributivo pari a 35 anni, prescindere dall’età anagrafica, allo scopo di risarcire così i cosiddetti lavoratori precoci, arruolati in giovane età nei ranghi della società industriale.

Il sistema contributivo. La riforma del 1995 (la legge n. 335) varata dal governo Dini, si fece carico di superare lo squilibrio determinato dal sistema retributivo che, in sostanza, a fronte anche dell’incremento dell’attesa di vita, tendeva a regalare ai pensionati un certo numero di anni di prestazioni non coperti dal montante della contribuzione accumulata. Nel regime contributivo, infatti, contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il montante accreditato è più consistente.

L’errore strategico fu commesso proprio nel 1995, nella logica (discutibile) di proteggere i lavoratori più anziani. Laddove si volle “blindare” all’interno del modello retributivo coloro che avevano maturato, alla fine del 1995, almeno 18 anni di versamenti. Se allora si fosse deciso subito (anziché nel 2012) il passaggio al pro rata, si sarebbe risparmiato un sacco di problemi e organizzato un sistema pensionistico più equo.

Cosa fare? Poiché i tassi di sostituzione del contributivo risultano abbastanza soddisfacenti per le carriere piene, si potrebbe concludere che, per risolvere i problemi, basterebbe favorire le assunzioni stabili e un modello contrattuale che sostenga i salari e la produttività. E questo va sicuramente fatto, dal governo e dalle parti sociali. Ma sappiamo anche che il mercato del lavoro è profondamente cambiato e che la rivoluzione Industria 4.0 potrebbe polarizzare ulteriormente l’occupazione, aumentando la distanza tra i lavori continui e ben pagati, e quelli discontinui e poveri. Le proposte espresse nella scorsa legislatura andavano dalla pensione minima (in pratica si tornerebbe a una forma d’integrazione), a carico dei contribuenti, dei trattamenti sotto un certo minimo, ai contributi figurativi, cioè pagati dallo Stato, per i periodi di disoccupazione.

Un taglio al cuneo fiscale. Una decisa riduzione della contribuzione Inps, per rilanciare il mercato del lavoro giovanile. Pare sia questo il programma del Governo per cercare d’invertire la rotta che sta dando sì segnali di risveglio, ma soprattutto tra gli over 50, e non tra i più giovani. Occorre dunque fare qualcosa di più per gli under 40. Come la riduzione dell’aliquota contributiva (2-3%).

In questo modo da una parte le imprese beneficerebbero di un taglio al costo del lavoro, dall’altra i lavoratori potrebbero scegliere d’incrementare la loro busta paga incassando il beneficio (dovrebbero però pagare l’aliquota marginale Irpef su tale incremento), oppure optare per destinare la stessa somma alla previdenza integrativa, deducendola dall’imponibile Irpef. In sostanza, l’aliquota contributiva a carico dell’azienda scenderebbe dal 23,81 al 21,81-20,81%, mentre quella versata dal lavoratore passerebbe dal 9,19 al 7,19-6,19%.

Attenzione però. La diminuzione dell’aliquota determinerebbe una riduzione effettiva dei versamenti contributivi e, dunque, nel sistema contributivo, una pensione d’importo proporzionalmente ridotto. Per evitare questo effetto negativo, occorre che la mancata contribuzione, sia “fiscalizzata”, ossia venga posta interamente carico del bilancio dello Stato. Magari attraverso l’esonero contributivo, almeno per il primo anno, in favore dei neo-assunti sotto i 40 anni. La tabella di marcia per tradurre la strategia in fatti concreti, risorse permettendo, sarà messa a punto con la manovra finanziaria di fine anno. Non ci resta che aspettare.

 

www.cgil.it

Leonardo Comegna