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PENSIONI SOPRA I 2030 EURO LORDI, DA APRILE SCATTANO I TAGLI

Scatterà con la rata di pensione di aprile il conguaglio riferito alla perequazione automatica di quest’anno. Lo riferisce l’Inps (circolare n. 44/2019), nel cui testo sono inserite anche le tabelle che contengono il vecchio e il nuovo importo del trattamento previdenziale. La questione prende le mosse dall’invio dei mandati di pagamento per l’anno nuovo, effettuato dall’ente sulla base della normativa di novembre; questa non teneva conto delle modifiche apportate in materia dalla legge di bilancio, approvata solo alla vigilia di Capodanno.

Le nuove regole. Come accennato, l’Inps non ha fatto in tempo ad applicare sugli assegni in pagamento a gennaio il nuovo schema introdotto dalla legge di bilancio, meccanismo meno favorevole di quello previsto dalla normativa in vigore a novembre. E così sono state saldate con il vecchio sistema le prime tre rate dell’anno, i cui importi, in alcuni casi, risultavano un po’ più generosi di quanto dovuto. Ora l’istituto previdenziale ha effettuato i ricalcoli e questa differenza accumulata nei tre mesi dovrà essere recuperata. La rata di aprile, dunque, sarà la prima calcolata con i criteri aggiornati e successivamente si procederà ai conguagli, anche quelli (ben più pesanti) originati non dalla rivalutazione, bensì dal taglio ai trattamenti alti, le "pensioni d’oro".

Misura del recupero. Con la nuova perequazione non cambia nulla per le pensioni fino a poco più di 1.500 euro lordi mensili (circa 1.200 netti), cioè quelle che arrivano fino a tre volte il trattamento minimo, per le quali l’incremento del costo della vita pari all’1,1% viene riconosciuto integralmente. E l’effetto è praticamente insignificante anche fra tre e quattro volte il minimo (cioè fino a circa 2.030 euro lordi al mese, circa 1.550 netti), che si vedono riconoscere il 97% dell’inflazione registrata lo scorso anno. Al di sopra di questa soglia la percentuale di rivalutazione riconosciuta inizia a calare gradualmente, prima al 77%, poi al 52%, al 47% e al 45%, per arrivare infine al 40% destinato ai trattamenti superiori ai 4.061 euro lordi mensili, che quindi recuperano meno della metà dell’aumento del costo della vita. Questa “scaletta” inserita nella legge di bilancio si confronta con lo schema che sarebbe dovuto tornare in vigore dal 2019, dopo i vari tagli alla rivalutazione operati dai vari governi che si sono succeduti in questo decennio.

Un meccanismo diverso. Prima dell’approvazione della legge di bilancio, il meccanismo di rivalutazione era diverso: aveva con percentuali dal 100% al 75%, applicate però su scaglioni della pensione. Dunque più vantaggioso di quello attuale che taglia l’adeguamento all’inflazione sull’intero importo e con decurtazioni più sostanziali. Facciamo un esempio: una pensione che nel 2018 valeva 2.700 euro lordi mensili, circa 1.920 netti, con l’inflazione all’1,1% avrebbe dovuto arrivare a 2.728, mentre con la nuova formula si fermerà a 2.715. La decurtazione è un po’ minore in termini netti, perché una parte dell’incremento perduto sarebbe stato comunque assorbito dalla tassazione. Occorre però considerare che la perdita di reddito è definitiva, nel senso che non sarà più recuperata. Per cui va moltiplicata per tutte le rate mensili percepite in futuro dal pensionato. A guadagnarci è ovviamente lo stato. L’operazione deve infatti portare risparmi per 253 milioni quest’anno, destinati a crescere a 742 il prossimo e poi a oltre 1,2 miliardi nel 2021. Dal taglio delle pensioni alte sono invece attesi circa 80 milioni l’anno.

La riduzione interessa tutte le pensioni dirette,ad eccezione solo di quelle interamente calcolate con il metodo “contributivo”. Restano inoltre fuori dal taglio le pensioni corrisposte alle “vittime del dovere e del terrorismo, quelle erogate ai superstiti e di invalidità.

Leonardo Comegna

www.inps.it