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  • Una sede dell'Inps

SPECIALE PENSIONI

Anche nel 2017 sono in arrivo numerose novità sul fronte pensioni, a cominciare dall’Ape, per la quale si attendono alcuni provvedimenti attuativi: ecco cosa cambierà.

 

Vecchiaia e anzianità. Quest’anno, per via degli adeguamenti demografici (legati alla cosiddetta speranza di vita) l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia è fissata a 66 anni e 7 mesi per gli uomini e 65 anni e 7 mesi per le donne (66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome). Novità anche sul fronte della pensione anticipata (in precedenza definita pensione di anzianità).

Com’è noto, con la riforma Monti-Fornero, a partire dal 2012 per ottenere la pensione prima dell’età della vecchiaia non bastano più i classici 40 anni, ma ne occorrono più di 42, soglia anch’essa assoggettata agli adeguamenti demografici. Nel triennio 2016-2018, dunque, per ottenere la rendita prima dell’età di vecchiaia bisogna accumulare almeno 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne.

 

Requisiti pensione di vecchiaia

ANNO

UOMINI

DONNE dipendenti

DONNE autonome

2011

65 anni

60 anni

60 anni

2012

66 anni

62 anni

63 anni e 6 mesi

2013

66 anni e 3 mesi

62 anni e 3 mesi

63 anni e 9 mesi

2014-2015

66 anni e 3 mesi

63 anni e 9 mesi

64 anni e 9 mesi

2016-2018

66 anni e 7 mesi

65 anni e 7 mesi

66 anni e 1 mese

 

 

Requisiti pensione anticipata

ANNO

UOMINI

DONNE

2012

42 anni e 1 mese

41 anni e 1 mese

2013

42 anni e 5 mesi

41 anni e 5 mesi

2014-2015

42 anni e 6 mesi

41 anni e 6 mesi

2016-2018

42 anni e 10 mesi

41 anni e 10 mesi

 

 

Opzione donna. Proroga dell’opzione donna, con rettifica per le lavoratrici precedentemente escluse, ossia quelle che avevano compiuto i 57-58 anni nell'ultimo trimestre del 2015 (circa 4mila persone). La nuova norma introdotta dalla Legge di bilancio 2017, coinvolge le lavoratrici che hanno raggiunto i requisiti anagrafici entro il 2015 e che erano rimaste escluse dalla proroga varata lo scorso anno. Lo slittamento del temine non cancella però l’adeguamento dell’età  alle speranze di vita, né tantomeno la cosiddetta “finestra mobile”, il meccanismo che fa decorrere la prestazione dal tredicesimo mese successivo (diciannovesimo mese per le autonome) a quello in cui si raggiungono i requisiti.

Anche le lavoratrici nate nell'ultimo trimestre 1957-1958 potranno dunque fruire dell'opzione, a condizione che  abbiano accumulato 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2015. Questo significa che le nate dal primo ottobre al 31 dicembre del 1958 (o del 1957 se autonome), maturano il diritto all'opzione entro il 31 luglio 2016. Ciò in quanto bisogna tener conto degli effetti di un adeguamento (demografico) di 3 mesi nel 2013 e di altri 4 mesi nel 2016, un totale di 7 mesi.  Un esempio per capire meglio. Un’operaia o impiegata nata il 15 dicembre 1958 raggiunge il diritto il 15 luglio 2016, e pertanto potrà incassare la pensione dopo altri 12 mesi, vale a dire dal primo agosto 2017.

 

Precoci e usurati. Via libera alla cosiddetta “quota 41” per i lavoratori precoci. Dal primo maggio 2017  coloro che possono far valere almeno dodici mesi di contribuzione, riferiti a periodi di lavoro effettivo, versati prima dei 19 anni di età, potranno ottenere il pensionamento anticipato con 41 anni (minimo che sarà soggetto all’adeguamento demografico), questo se:

a) risultano disoccupati, a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo,  e hanno concluso integralmente la prestazione per la disoccupazione  da almeno tre mesi;  

b) assistono, al momento della richiesta e da almeno sei mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità;

c) hanno una riduzione della capacità lavorativa almeno pari al 74%;  

d) sono lavoratori dipendenti che svolgono, al momento del pensionamento, da almeno sei anni in via continuativa attività lavorative per le quali è richiesto un impegno tale da rendere particolarmente difficoltoso e rischioso il loro svolgimento (operai dell'industria estrattiva, dell'edilizia,  conciatori, maestre d’asilo, ecc.).

Da segnalare, infine, che la pensione conseguita con l'agevolazione in questione non sarà cumulabile con redditi da lavoro, subordinato o autonomo, per un periodo di tempo corrispondente alla differenza tra i 41 anni e l'anzianità contributiva al momento del pensionamento. Per esempio, un pensionato che esce con 41 anni di contributi non potrà lavorare per un periodo successivo alla pensione, pari a un anno e dieci mesi se uomo o a dieci mesi se donna. 

 

Cancellata la penalizzazione per chi stacca prima. Per scoraggiare il ricorso alla pensione di anzianità, la riforma Fornero ha introdotto, a partire dal 2012, un meccanismo che penalizza pesantemente chi decide di lasciare il lavoro prima dei 62 anni di età. La penalizzazione consiste in una riduzione della quota “retributiva” maturata sino al 31 dicembre 2011: un punto percentuale per ogni anno di anticipo rispetto ai 62 anni di età minima e due per gli anni di anticipo rispetto ai 60. Per chi per esempio va in pensione a 59 anni, la quota retributiva maturata prima della riforma, che ha introdotto il calcolo “contributivo” per tutti, subisce una riduzione del 4%: 2% per i due anni di anticipo rispetto ai 62, più 2% per l’ulteriore anno di anticipo rispetto ai 60. Ebbene, dopo la sospensione sino a tutto il 2017 concessa dalla Legge di bilancio 2016, quella per il 2017 ha definitivamente cancellato la penalizzazione a partire dal 2018

 

Quanto s’incasserà. Nel 2017 nulla cambia per quanto riguarda il conteggio della rendita. Per contenere la spesa pensionistica, la riforma del 1995 ha introdotto il sistema di calcolo contributivo, per cui la pensione viene calcolata non più sugli ultimi stipendi (come nel vecchio metodo "retributivo"), ma sull'intera vita lavorativa.

In pratica, la legge Dini ha diviso i lavoratori in tre generazioni:

1) ha mantenuto il vecchio criterio retributivo per chi a fine 1995 aveva un'anzianità di almeno 18 anni;

 2) ha introdotto il contributivo sulle sole annualità successive al primo gennaio 1996 (calcolo misto) nei confronti di chi, a quella stessa data, aveva versato contributi per meno di 18 anni;

3) ha riservato per intero il nuovo metodo di calcolo contributivo nei confronti dei neoassunti dal primo gennaio 1996 in avanti.

Recentemente, con la riforma Monti- Fornero, dal primo gennaio 2012 è stato introdotto, con il meccanismo del pro-rata, il metodo di calcolo contributivo per tutti, compresi dunque coloro che al 31 dicembre 1995 potevano contare su un minimo di 18 anni di contributi, e che quindi sino al 31 dicembre 2011 hanno beneficiato del più vantaggioso criterio retributivo.

Facciamo un semplice esempio. Prendiamo il caso di un impiegato di 60 anni di età che decide di andarsene in pensione a luglio 2017 con alle spalle 42 anni e 10 mesi di versamenti, e una retribuzione annua media pari a 38 mila euro. Questo è il conteggio:
1) quota retributiva: 38.000 euro per 76% (38 anni sino al 31 dicembre 2011, per 2%) = 28.880 euro;
2) quota contributiva: 209.000 (stipendi percepiti dal gennaio 2012 al giugno 2017) per 33% (aliquota di accantonamento) per 4,589% coefficiente di trasformazione del montante contributivo accumulato per chi chiede la pensione all’età di 60 anni = 3.165 euro. Ebbene, il soggetto ipotizzato avrà diritto a una pensione annua, al lordo dell’Irpef, pari a 32.045 euro (28.880 di quota retributiva più 3.165 di quota contributiva), ossia un assegno mensile di 2.465 euro (pensione annua diviso 13).

 

Niente aumenti. L’assegno dell’Inps sarà sempre più magro. Le rilevazioni dell'Istat sul costo della vita nel 2016, indicate in un decreto ministeriale dello scorso novembre, non registrano variazioni: nel 2017, quindi, sulle rate mensili delle pensione, non vi saranno i consueti adeguamenti. Fanno eccezione gli assegni entro i duemila euro (tre volte il minimo), cui verranno corrisposti gli aumenti ridotti relativi al recupero dell'inflazione del 2012-2013, il cui blocco deciso dalla riforma Fornero, è stato bocciato dalla Corte Costituzionale nel giugno 2015.

Le pensioni vengono rivalutate sulla base di un meccanismo ragguagliato al costo della vita. Per dar modo all’Inps di predisporre per tempo i mandati di pagamento, a fine novembre si fa una previsione sull’andamento dell’inflazione e se ne riportano gli effetti sui trattamenti, riservandosi un conguaglio a fine anno, in presenza del dato effettivo. In passato vi era sempre la necessità di un qualche adeguamento rispetto a un trend più elevato. Nel 2014, invece, l’inflazione è cresciuta meno del previsto: una circostanza inaspettata. Più semplicemente, nel corso del 2015 le pensioni hanno beneficiato di una rivalutazione dello 0,3%. Questa percentuale, applicata a titolo provvisorio, è stata invece ritoccata dall'Istat nella misura definitiva dello 0,2%, con una differenza di – 0,1% (per le pensioni al minimo si tratta di circa 6 euro). Una rivalutazione "negativa" non si era mai verificata nel corso degli anni, non essendo neppure ipotizzabile. Si è resa quindi opportuna una sanatoria, contenuta in uno degli ultimi emendamenti apportati proprio dal Governo alla Legge di stabilità per il 2016.

Tradotto in parole povere, a gennaio 2016 sono stati messi in pagamento gli importi “ritoccati” (in negativo) con  il tasso d’inflazione definitivo relativo al 2014, ma non vi è stata alcuna restituzione. Il tutto è stato rimandato al 2017. Ciò che in realtà non è avvenuto per via del valore zero del tasso d’inflazione definitivo 2016. Insomma, tre anni senz’aumenti per le pensioni.

 

Le pensioni minime del 2017

Assegno sociale

euro

448,07

Trattamento minimo

euro

501,89