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LAVORO E PENSIONI, COSA BOLLE IN PENTOLA NELLA LEGGE DI BILANCIO 2018

Sui temi del lavoro delle pensioni tornano a farsi sentire i sindacati ma anche alcuni partiti, in vista delle prossime elezioniNei giorni scorsi Cgil, Cisl e Uil  hanno inviato al Governo una proposta unitaria per intervenire sulla previdenza, in modo da  "superare le attuali rigidità e favorire il turn over generazionale per rendere più equo l'attuale sistema ". Oltre alla richiesta di blocco dell'adeguamento all'aspettativa di vita, previsto per il 2019 (a 67 anni),  vengono avanzate le proposte del riconoscimento di un anticipo per l'accesso al pensionamento per tutte le lavoratrici madri, un assegno minimo anche per le pensioni calcolate con il nuovo criterio contributivo, il ripristino della piena indicizzazione e un rilancio della previdenza complementare.  Non una parola sulla famosa “opzione donna”.  Si tratta comunque di un menu niente male in vista del varo della Legge di Bilancio 2018.  Il profilo della manovra è sempre meno sfumato e più evidente dalle parole dei ministri che si alternano nel dichiarare, più o meno ufficialmente, secondo il loro dicastero, cosa intendono mettere nel sacco della ex Legge Finanziaria. Ma vediamo con ordine cosa potrà succedere il prossimo anno, a cominciare dal cosiddetto “tesoretto contributivo” finalizzato al rilancio dell’occupazione giovanile.

Il tesoretto contributivo. L’impianto base dovrebbe ormai essere pronto. Per rilanciare l’occupazione, si pensa a un dimezzamento dei contributi pagati dalle imprese per tutti i nuovi assunti al di sotto dei 29-32 anni (soglia non ancora precisata). Il maxi sconto durerebbe per i primi due anni di contratto, anche se resta in piedi l’ipotesi di un periodo più lungo, fino a tre anni. E farebbe scendere l’aliquota contributiva dal 30-33% di adesso - c’è una leggera variazione a seconda dei casi - giù fino al 15%-17,5%.  Lo sconto non potrebbe comunque superare i 3.250 mila euro l’anno. Una volta passati due anni dall’assunzione con il maxi sconto, a differenza di quanto fatto con il Jobs Act, resterebbe comunque una riduzione dei contributi, contenuta di 4 punti percentuali rispetto all’aliquota standard del 30-33%, per scendere quindi al 26-29% e destinata a durare fino alla fine della carriera, anche se il dipendente cambia azienda. E con un effetto da dividere in due parti: per metà a vantaggio delle imprese, come riduzione dei contributi da versare; per l’altra metà a vantaggio del lavoratore con un aumento della sua busta paga. Il taglio dei contributi non avrebbe effetti sulla futura pensione del lavoratore. La somma non versata dall’azienda sarebbe coperta dallo Stato, ed è per questo che l’operazione ha un costo: intorno al miliardo di euro per il primo anno, sui due miliardi una volta a regime.

Età pensionabilePer questo capitolo non occorre rifarsi alla Legge di Bilancio, perché è già scritto. A gennaio, infatti, scatta l’unificazione, prevista dalla riforma Monti-Fornero, dell’età per la pensione di vecchiaia tra uomini e donne: le dipendenti private passeranno dagli attuali 65 anni e 7 mesi a 66 anni e 7 mesi con un incremento di un anno, mentre le autonome passeranno da 66 anni e 1 mese a 66 anni e 7 mesi, mezzo anno di lavoro in più; le donne del pubblico impiego sono già a 66 anni e 7 mesi. L’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia sarà la più alta in Europa, e il divario aumenterà nei prossimi anni con l’adeguamento all’aspettativa di vita e il passaggio previsto (in ogni caso) nel 2021 a 67 anni. Nella maggior parte dei Paesi europei, l’età  per la pensione di vecchiaia è prevista intorno ai 65 anni, con aumenti a 67 anni in Danimarca e Francia (se passa la riforma Macron) nel 2022, in Spagna nel 2027, nel Regno Unito nel 2028, in Germania nel 2029 (ma la data potrebbe essere anticipata), in Croazia nel 2038, mentre in Austria per le donne l’elevazione dell’età partirà gradualmente nel 2024 per arrivare a 65 anni nel 2033.

Indicizzazione. Dopo anni di mancata rivalutazione (l’ultima è del 2013 con un +1,2%, poi zero per il 2014, zero per il 2015 e addirittura -0,1% per il 2016), a gennaio 2018 le pensioni in pagamento, verranno adeguate all’inflazione all’incirca dell’1,3 – 1,4%. Attenzione, però. Poiché l’indice d’inflazione provvisorio 2014 per la rivalutazione nel 2015 era stabilito nello 0,3%, ma è stato definitivamente fissato (nel 2015) dall’Istat nello 0,2%, dal primo gennaio 2016 le pensioni si sarebbero dovute ridurre dello 0,1%. Per evitare una rivalutazione negativa, la Legge di Stabilità 2016 ha previsto che a gennaio fossero messi in pagamento gli stessi importi dell’anno precedente, senza alcuna trattenuta riferita al 2015. Il conguaglio si sarebbe dovuto fare nel 2017, cosa che in realtà non è avvenuta in quanto l’indice d’inflazione 2016 è stato negativo (- 0,1%) e gli importi sono rimasti quelli  di due anni prima. La Legge di Bilancio per il 2018 dovrà quindi stabilire se recuperare il pregresso (0,1% per il 2015 e 0,1% per il 2016), sottraendolo alla rivalutazione prevista per l’anno prossimo. Un provvedimento che nessun partito sarebbe disposto a sottoscrivere in vista delle elezioni della prossima primavera.

Minimo di garanzia. L'idea avanzata dalle organizzazioni sindacali è d’introdurre anche nel sistema contributivo, in cui ricadono completamente le generazioni più giovani, un minimo, come nel sistema retributivo, pari a 650 euro per chi ha 20 anni di contributi. Minimo che può lievitare di 30 euro al mese per ogni anno in più, fino a un massimo di mille euro. Ma qui si entra in un terreno a rischio. La riforma contenuta nel famoso decreto “Salva Italia” (governo Monti) ha avuto infatti il merito di realizzare un serio aumento dell’età effettiva di pensionamento, ponendo fine all’eccessivo gradualismo della riforma Dini. Basti dire che nel ventennio 1997-2016, nel settore privato, sono state liquidate 3,4 milioni di pensioni di anzianità a lavoratori con età media di 57 anni e 9 mesi e 3,5 milioni di pensioni di vecchiaia a persone con età media di 63 anni. Solo dopo la Fornero le due età sono salite rispettivamente, nel 2016, a 60 anni e mezzo e a 66 anni e 4 mesi. Risultati rispetto ai quali, a detta dei tecnici, sarebbe sbagliato tornare indietro. Così come va corretta, sempre a detta dei tecnici, la tesi secondo cui il calcolo contributivo realizzi sempre un taglio drammatico della pensione. Le elaborazioni della Ragioneria dello Stato mostrano infatti che il tasso di sostituzione, ossia l’importo della pensione netta rispetto all’ultima retribuzione, a parità di anni di contributi versati, nel “contributivo” non è inferiore al vecchio retributivo.

Opzione Donna addio?  L’operazione che consente alle lavoratrici di andare in pensione a 57 anni (58 se autonome) con soli 35 anni di contribuzione, scegliendo il calcolo contributivo, con un taglio a volte anche consistente dell'importo della propria pensione, non è rientrata tra i temi all’ordine del giorno degli ultimi incontri Governo- sindacati. In cambio della soppressione dell’opzione donna, l’intesa dovrebbe invece recepire la possibilità di uno sconto di tre anni dell’anzianità minima richiesta per l’accesso all’Ape sociale (si veda News del 19 luglio, http://www.iomiassicuro.it/news/pensione-anticipata-fine-primo-tempo).

Al posto dei 30 (36 anni per i lavori gravosi), verrebbero richiesti rispettivamente 27 e 33 anni. Sarebbe vanificata, quindi, la richiesta delle lavoratrici appartenenti all’agguerrito gruppo "Opzione Donna Proroga al 2018" (oltre 2mila aderenti)  che  continua a chiedere lo slittamento a tutto il prossimo anno, e un intervento finalizzato a renderla da regime sperimentale a strutturale. In proposito, va ricordato che le donne state sicuramente le più penalizzate dall’ultima riforma, principalmente a causa dell’abolizione delle pensioni di anzianità e l’introduzione del pensionamento anticipato, per il quale la soglia del requisito contributivo parte da 41 anni e 10 mesi, soglia destinata ad aumentare nei prossimi anni per effetto dell’allungamento delle speranze di vita. Occorre infine annotare che entro il 30 settembre di ogni anno il Ministero del Lavoro deve inviare i risultati del monitoraggio “opzione donna” al Parlamento , cui spetta l'ultima parola circa la possibilità di stabilire una ulteriore proroga della sperimentazione oltre il 31 dicembre 2015.

Previdenza complementare. Tra le richieste sindacali vi è infine quella di dare una spinta alla previdenza complementare, compreso il pubblico impiego. Su questo fronte il Governo sta preparando alcune misure per rendere più appetibile l’utilizzazione per tutti della Rita (la Rendita integrativa temporanea anticipata), sganciandola dai parametri Ape (anticipo pensionistico). Le ultime notizie si concentrano infatti su di un alleggerimento della data a partire da cui è possibile richiedere la rendita integrativa. Le novità potrebbero riguardare un allentamento del requisito, che impone l'accesso ad almeno 3 anni e 7 mesi dal pensionamento. Le indiscrezioni dell'esecutivo sono arrivate a indicare una diminuzione fino a 5 anni sul limite indicato. L'obiettivo è di garantire maggiore scelta a chi è vicino alla pensione, con una misura che richiede un limitato costo per la finanza pubblica.