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RIVALUTAZIONE PENSIONI, L’ENNESIMO NO DELLA CORTE COSTITUZIONALE

I numerosi pensionati che continuano a chiedere alla Corte costituzionale di rimuovere il blocco della rivalutazione delle pensioni d'importo superiore a 6 volte il minimo (2.973 euro mensili), devono mettersi l’animo in pace una volta per tutte. Con l’ordinanza 96/2018, depositata l’11 maggio, la Consulta ancora una volta ha detto “no”. L’ultima questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte dei conti della Lombardia in seguito a un ricorso presentato da 81 pensionati contro l'Inps, in cui lamentavano tra l'altro il negato adeguamento dei propri assegni “già da un lustro”, riducendo in tal modo il potere di acquisito del 5,78% nel biennio 2012/2013 e del 6,94% nel triennio 2012/2014. Insomma, bisogna accontentarsi del cosiddetto “bonus” Poletti, ossia degli aumenti risicati, giudicati legittimi perché in linea con il bilancio pubblico.

La perequazione. È l’automatismo che consente l’adeguamento delle pensioni al costo della vita Istat, al fine di salvaguardare, in qualche misura, il reale potere d’acquisto. La disciplina risale alla Legge finanziaria 1999, modificata più volte (specie negli anni di crisi) per ridurre la spesa pubblica. Dal 2001 la perequazione attribuisce questi aumenti:

1) 100% dell’Istat alla quota di pensione fino a 3 volte il minimo Inps;

 2) 90% alla quota fra 3 e 5  volte;

3) 75% alla quota superiore a 5 volte. 

Con l’eccezione del 2008 (non ci fu perequazione per le pensioni superiori a 8 volte il minimo), il criterio è rimasto valido fino al 2011. Negli anni 2012 e 2013, la riforma Fornero ha attribuito la rivalutazione al 100% alle pensioni fino a 3 volte il minimo, e nessuna a quelle d’importo superiore. L’operazione, però fu censurata dalla sentenza 70/2015, che da una parte rendeva felici i pensionati, dall’altra gettava nel panico il Governo temendo ripercussioni sui già difficili conti pubblici.

Naturale conseguenza sarebbe dovuta essere la soppressione della norma incostituzionale, vale a dire riconoscere le rivalutazioni non concesse nel biennio 2012/2013 (al 90% per la quota di pensione fra 3 e 5 volte il trattamento minimo; e al 75% per la quota oltre 5 volte); nonché ricalcolare le pensioni nel 2014 e 2015 e negli anni successivi, tenendo conto delle rivalutazioni (2012 e 2013) non attribuite.

Il contentino.  Consapevole dell’impossibilità di scaricare sul bilancio statale la spesa necessaria ad applicare la sentenza, il Governo dell’epoca corse ai ripari introducendo una misura ad hoc, battezzata bonus Poletti. L’operazione ha portato alla rielaborazione delle perequazioni dal 2012 al 2015. Per gli anni 2012 e 2013:

1) 100% fino a 3 volte il minimo;

 2) 40% oltre 3 e fino a 4 volte;

3)  20% oltre 4 e fino a 5 volte;

4) 10% oltre 5 e fino a 6 volte;

5) nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.

Inoltre, per gli anni 2014 e 2015 la rivalutazione 2012 e 2013 è stata considerata in misura ridotta (al 20%) e per il 2016 al 50%.

Effetto trascinamento.  Vale la pena sottolineare che il blocco della rivalutazione non interessa solo le annualità in cui ha effettivamente operato il congelamento, ma si trascina in modo strutturale in tutti gli anni successivi. La mancata indicizzazione riduce infatti la base del rateo di pensione su cui ogni anno si applica la perequazione e, quindi, l'importo messo in pagamento risulta ogni anno inferiore.

Vediamo, facendo un conto approssimativo e sommario, quale risulta in realtà il danno reale provocato dal blocco. Osserviamo, per esempio, il caso di un assegno Inps dell’importo di 2.500 euro alla data del dicembre 2011: a gennaio 2015 è stato pagato in misura pari a 2.518 (1.843 euro netti). Anche questo assegno è ripartito, nel gennaio 2014, con le nuove e più severe regole sull’indicizzazione intervenute nel frattempo. Senza il congelamento dell’Istat, il vitalizio, a gennaio 2015, risulterebbe pari a 2.655 euro (1.923 al netto dell’Irpef), 137 euro in più di quella riscossa all’inizio del 2016, anno in cui l’inflazione è risultata pari a zero.  Non bisogna dimenticare, infine, che dal 1992 tutte le rendite non sono più agganciate agli aumenti contrattuali dei lavoratori in attività (come avveniva in precedenza), ma solo all’inflazione, e in modo parziale. In vent’anni, insomma, gli assegni Inps hanno visto praticamente evaporare il loro potere d’acquisto. 

 

Il tormentone della rivalutazione

Anno

Effetti sulla rivalutazione

2008

La manovra finanziaria 2008  (legge n. 244/2007) blocca per quell’anno la rivalutazione delle pensioni d’importo superiore a 8 volte il minimo.

2011

La manovra Monti (Decreto “Salva Italia” n. 201/2011) blocca per il biennio 2012/2013 la rivalutazione delle pensioni superiori a 3 volte il minimo (1.405 euro lordi, 1.217 euro netti).

2012

La manovra Finanziaria 2013 (legge n. 228/2012) blocca la rivalutazione delle pensioni superiori a 6 volte il minimo per l’anno 2014.

2013

La legge di Stabilità 2014 (n. 147/2013) modifica la perequazione per il triennio 2014/2016.

2015

La Corte costituzionale boccia il blocco della rivalutazione 2012/2013 (sentenza n.70/2015).

2015

Introdotto il bonus Poletti (Decreto legge  n. 65/2015) a ristoro parziale del blocco biennale di indicizzazione.

2017

La Corte costituzionale giudica legittimo il bonus Poletti a ristoro del blocco della perequazione, poiché realizza “un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica”.

2018

La Corte costituzionale, con un’ordinanza (n.96/2018) fotocopia della sentenza n.70/2015 assolve il bonus Poletti perché realizza un accettabile bilanciamento tra il diritto dei pensionati e le esigenze dei conti dello Stato.

 

www.cortecostituzionale.it

Leonardo Comegna