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QUESTE POVERE PENSIONI, LA CORTE COSTITUZIONALE CONFERMA I RIMBORSI

La Corte costituzionale ha stabilito che i pensionati dovranno accontentarsi dei rimborsi previsti dal Governo nel 2015, dopo la sentenza che aveva bocciato lo stop all’indicizzazione della riforma Fornero. La "nuova e temporanea disciplina" prevista dal decreto Poletti, "diversamente dalle disposizioni del Salva Italia annullate nel 2015", realizza "un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica". E’ questa la risposta con la quale la Corte costituzionale ha respinto le censure d’illegittimità sollevate sul famoso “decreto Poletti” in materia di perequazione delle pensioni.

Al vaglio della Consulta questa volta vi erano questioni di legittimità sollevate da numerosi tribunali (14 per la precisione) sul decreto d’urgenza che il Governo varò dopo la sentenza dell’aprile 2016. Con questa pronuncia gli stessi giudici bocciarono la norma della riforma Fornero che aveva bloccato per gli anni 2012 -2013 l’indicizzazione delle pensioni con importo mensile di 3 volte superiore al minimo Inps (circa 1.450 euro lordi). Una curiosità (o paradosso?): relatrice della causa, il caso interessava 6 milioni di pensionati, è stata la giudice costituzionale Silvana Sciarra, che lo era già stata in quella del 2015. 

Il 'bonus' Poletti. Il decreto, noto anche come “bonus Poletti (il Ministro del lavoro), varato per disinnescare la bomba che sarebbe esplosa in seguito al riconoscimento dell’illegittimità della norma, stabilì quindi una parziale restituzione della rivalutazione, e non per tutti. Il 100% è stato previsto solo per le pensioni fino a 3 volte il minimo Inps, per quelle da 3 a 4 volte venne stabilito il 40%, che scende al 20% per gli assegni superiori di 4-5 volte il minimo, e al 10% per quelli tra 5-6 volte. Chi percepiva una pensione superiore a 6 volte il minimo è stato invece escluso dalla restituzione.

Effetto trascinamento. Vale la pena sottolineare che il blocco della rivalutazione non interessa solo le annualità in cui ha effettivamente operato il congelamento, ma si trascina in modo strutturale in tutti gli anni successivi. Infatti, la mancata indicizzazione riduce la base del rateo di pensione su cui ogni anno si applica la perequazione e, quindi, l'importo messo in pagamento risulta ogni anno inferiore.

Vediamo, facendo un conto sommario, quale risulta in realtà il danno reale provocato dal blocco. Osserviamo, per esempio, il caso di un assegno Inps dell’importo di 2.500 euro lordi alla data del dicembre 2011: a gennaio 2015 è stato pagato in misura pari a 2.518 (1.843 euro netti). Anche questo assegno è ripartito, nel gennaio 2014, con le nuove e più severe regole sull’indicizzazione intervenute nel frattempo.  Senza il congelamento dell’Istat, a gennaio 2015 il vitalizio risulterebbe pari a 2.655 euro (1.923 al netto dell’Irpef),  137 euro in più di quella riscossa all’inizio del 2016, anno in cui l’inflazione è risultata pari a zero.  E bisogna anche tenere conto che dal 1992 tutte le rendite non sono più agganciate agli aumenti contrattuali dei lavoratori in attività (come avveniva in precedenza), ma solo all’inflazione (e in modo parziale). In vent’anni, insomma, gli assegni Inps hanno visto praticamente evaporare il loro potere d’acquisto