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PENSIONE MINIMA PER I GIOVANI, DUE ANNI IN MENO PER L’APE SOCIALE DONNE

Una pensione minima di garanzia da 650 euro per i giovani di oggi che lasceranno il lavoro dal 2030 in poi. E uno sconto per le donne sull’anzianità richiesta (almeno 30 anni) per l’accesso all’Ape sociale. E’ questo il “pacchetto” proposto dal Governo alle organizzazioni sindacali nell’incontro del 7 settembre. Per i numeri più precisi si dovrà attendere il prossimo confronto in calendario per il 13 settembre.

I Millennials. C’è una generazione, quella di chi è nato dal 1980 in poi (i cosiddetti “ Millennials”), che è stata investita in pieno da tutte le riforme della previdenza. Per loro, il combinato disposto del calcolo contributivo, introdotto dal riordino operato dal Governo Dini per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995, e il forte aumento dei requisiti per la pensione scattato con la riforma Monti-Fornero del 2011, ha aperto una prospettiva carica di preoccupazioni. Si tratta di una generazione che già subisce il dramma del precariato e di un’elevata disoccupazione giovanile, e che vede la pensione come un autentico miraggio.  Questa generazione, attualmente, avrà tre possibilità future per andare in pensione. La prima riguarda l'assegno di vecchiaia. Calcoli alla mano, serviranno 20 anni di contributi e un'età minima di 69 anni e 5 mesi, ma anche aver maturato una pensione non inferiore a 1,5 volte l'assegno sociale (attualmente 640 euro). Per la pensione anticipata, i requisiti si fanno ovviamente più stringenti: si può smettere di lavorare tre anni prima, a 66 anni e 5 mesi, ma occorre aver maturato una pensione non inferiore a 2,8 volte l'assegno sociale (a oggi 1.255 euro). Un'altra possibilità, specifica per chi non riesce a maturare quella cifra a causa di lunghi periodi di disoccupazione e salari bassi, considerando gli adeguamenti automatici, porterà alla pensione addirittura a 73 anni e mezzo.

Minimo di garanzia. L'idea è quella d’introdurre anche nel sistema contributivo (in cui appunto ricadono completamente le generazioni più giovani), un minimo, come nel sistema retributivo, pari a 650 euro per chi ha 20 anni di contributi, che possono aumentare di 30 euro al mese per ogni anno, in più fino a un massimo di mille euro. Si tratta di una delle numerose proposte per rimettere mano alla riforma Fornero. Ma qui si entra in un terreno a rischio. La riforma contenuta nel famoso decreto “Salva Italia” ha avuto infatti il merito di realizzare un serio aumento dell’età effettiva di pensionamento, ponendo fine all’eccessivo gradualismo della riforma Dini.

Basti dire che nel ventennio 1997-2016, nel settore privato, sono state liquidate 3,4 milioni di pensioni di anzianità a lavoratori con età media di 57 anni e 9 mesi, e 3,5 milioni di pensioni di vecchiaia a persone con età media di 63 anni. Solo dopo la Fornero, le due età sono salite rispettivamente, nel 2016, a 60 anni e mezzo e a 66 anni e 4 mesi. Risultati rispetto ai quali sarebbe sbagliato tornare indietro. Così come dev’essere corretta la tesi secondo cui il calcolo contributivo realizzi sempre un taglio drammatico delle pensioni. Le elaborazioni della Ragioneria dello Stato mostrano che, a parità di anni di contributi versati, nel contributivo il tasso di sostituzione, cioè l’importo della pensione netta rispetto all’ultima retribuzione, non è inferiore rispetto al vecchio retributivo.

Cosa fare? Poiché i tassi di sostituzione del contributivo sono più che soddisfacenti per le carriere piene, si potrebbe concludere che per risolvere i problemi basterebbe favorire le assunzioni stabili e un modello contrattuale che sostenga i salari e la produttività. E questo va sicuramente fatto, dal Governo e dalle organizzazioni sindacali. Da qui le proposte tecniche emerse sul tavolo dell’ultimo confronto tra le due parti.

Si va dalla pensione minima di garanzia (in pratica si tornerebbe a una forma d’integrazione, a carico dei contribuenti, per le pensioni sotto un certo minimo) ai contributi figurativi, cioè pagati dallo Stato, per i periodi di disoccupazione. E ancora, dall’eliminazione delle soglie di 1,5 volte e di 2,8 volte il minimo per accedere rispettivamente alla pensione di vecchiaia e a quella anticipata, fino al rafforzamento delle risorse per l’Ape sociale per agevolare le classi più deboli, come le donne con figli. Queste ultime potrebbero accedere al pensionamento anticipato un uno sconto di 6 mesi per ogni figlio, sino a un massimo di 2 anni: 28 anni di contribuzione anziché 30.

La proposta di fatto, oltre ad allargare un po’ le maglie del pensionamento anticipato, bilancerebbe anche l’attuale disparità nelle domande di accesso all’Ape social: il governo stima un ampliamento della platea e un possibile aumento dall’attuale 29% al 40% delle domande da parte delle donne Quanto alle risorse da mettere sul piatto, come accennato, il Governo continua a tenere per ora le carte coperte, anche se avrebbe garantito un aumento dei finanziamenti. I sindacati però non sono soddisfatti. Va bene riconoscere il valore della maternità, ma resta fuori dal perimetro il lavoro di cura e di assistenza familiare, tipico delle donne.