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PART-TIME AGEVOLATO, UN ALTRO FLOP DOPO IL TFR IN BUSTA PAGA

Il part-time agevolato riservato ai lavoratori con più di 63 anni è stato un flop, così come accaduto per quella sul Tfr in busta paga. A dirlo esplicitamente è il sottosegretario al Welfare, Luigi Bobba, in risposta a un’interrogazione parlamentare che si è tenuta qualche giorno fa in Commissione lavoro alla Camera. L’intento del Ministro del lavoro Giuliano Poletti era di superare la rigidità della legge Fornero e facilitare il turn over occupazionale.

Il part time agevolato è stato infatti il primo strumento lanciato dal governo Renzi per superare i limiti sull’età di ritiro (66 anni e 7 mesi). Il decreto che consentiva ai lavoratori che avrebbero maturato il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia entro il 31 dicembre 2018 di andare in part time verso la pensione è entrato in vigore il 2 giugno 2016; da questa data le domande accolte dall'Inps sono state meno di 162. Le risorse finanziarie utilizzate sino a oggi, relativamente agli anni 2016, 2017 e 2018 ammontano complessivamente a 1, 209 milioni di euro. Insomma un vero e proprio buco nell'acqua sul quale, ha detto il Sottosegretario, il Governo avvierà una riflessione per verificare l'eventualità della proroga della misura per il prossimo anno.

Che cos’èIl part-time agevolato consente ai richiedenti di  ridurre il proprio orario di lavoro in una misura compresa tra il 40% e il 60%. L'accesso al tempo parziale, previo accordo con il proprio datore di lavoro, è riconosciuto a chi è  in possesso dei seguenti requisiti:   sussistenza, al momento della richiesta, della titolarità di un rapporto di lavoro subordinato, anche agricolo, con contratto a tempo pieno e indeterminato e  maturazione entro il 31 dicembre 2018 del diritto alla pensione di vecchiaia. In sostanza, il lavoratore interessato  dev’essere in possesso di almeno 20 anni di contributi e compiere 66 anni e 7 mesi entro il 31 dicembre 2018. Se è una donna, 65 anni e 7 mesi negli anni 2016 e 2017 o 66 anni e 7 mesi nel 2018.

I vantaggi. Il passaggio dal tempo pieno al part-time permette di percepire una retribuzione pari a circa i due terzi di quella ordinaria: in pratica, si dimezza l’orario ma non lo stipendio. Questo perché l’azienda versa in busta paga i contributi di sua competenza che avrebbe dovuto versare all’Inps sulla parte di orario che viene ridotta (circa la metà del 24%). Questa somma si aggiunge esentasse allo stipendio ricalcolato sulla base dell’orario ridotto. Un esempio per capire meglio. Un lavoratore che praende 1.500 euro netti al mese e passa a un part-time a mezza giornata (al 50%) non prenderà 750 euro, bensì intorno ai mille euro al mese, circa il 70%. Un vantaggio per il lavoratore, dunque, non per l’azienda che deve comunque sborsare i contributi.

Gli effetti sulla pensione. Quanto alla pensione futura, il lavoratore non subirà danni a causa del mancato pagamento dei contributi all’Inps, perché essi saranno trasformati in contributi figurativi: sarà cioè lo Stato a farsene carico. In altre parole, il lavoratore part-time arriva alla pensione senz’alcun  danno per  l’assegno Inps, come se avesse continuato a lavorare a tempo pieno. E’ per questo che il Governo si attendeva un grande successo di questa misura che punta a favorire l’uscita graduale dal lavoro: i dati, però, sembrano dire proprio il contrario. 

www.inps.it