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IL WELFARE ITALIANO È FRA I PIÙ COSTOSI D’EUROPA

Non è vero che in Italia si spenda molto meno per il welfare rispetto agli altri paesi europei. Nel 2015 la spesa per prestazioni sociali  è stata pari a 447,396 miliardi di euro: il 54,13% dell’intera spesa statale, comprensiva degli interessi sul debito pubblico, e il 27,34% rispetto al Pil (Prodotto interno lordo), uno dei livelli più elevati in Europa. È evidente che si tratta di un onere difficilmente sostenibile in futuro, che già ora “limita gli investimenti pubblici in tecnologia, ricerca e sviluppo, unica via per garantire la competitività del Paese e un futuro più favorevole per le giovani generazioni già gravate da un abnorme debito pubblico”.

Ma allora, quanto ci costano le pensioni? Alla domanda risponde il Quarto rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano, redatto dal Comitato tecnico scientifico di “Itinerari previdenziali”, coordinato da Alberto Brambilla, presentato ieri alla Camera dei deputati. Fino al 2012 il rapporto era redatto dal Nucleo di valutazione della Spesa Previdenziale (previsto dalla legge di riforma del governo Dini del 1995), e trasmesso annualmente al Ministro del lavoro, e tramite questo alle Camere e agli organismi internazionali. Poi il nucleo ha cessato di esistere, e al suo posto praticamente non c’è stato più nulla, tranne appunto la lodevole iniziativa di “Itinerari Previdenziali”.

La spesa pensionistica. Nel 2015, secondo lo studio, il numero dei pensionati è sceso a quota 16.259.491, in calo di 80.114 rispetto al 2014 (riportando i valori a quelli del 1998). Anche il numero delle prestazioni è diminuito a 23.095.567, tornando ai valori del 2004. Ogni pensionato riceve in media 1,427 prestazioni: questo porta la pensione media da 12.136 euro annui a 17.323 euro, “ben al di sopra dei mille euro al mese". Nonostante il calo del numero di prestazioni e dei pensionati, la spesa per prestazioni (comprese quelle assistenziali) è aumentata, e questo si riflette nell'aumento della pensione media (più 4,12%)". Inoltre, il rapporto tra occupati e pensionati nel 2015 è pari soltanto a 1,388 attivi per pensionato.

Nel 2015 la spesa pensionistica è stata pari a 217.895 milioni di euro, con un aumento rispetto al 2014 dello 0,82% imputabile sia alla rivalutazione delle rendite all’inflazione, sia al cosiddetto “effetto rinnovo”, che consiste nella sostituzione delle pensioni cessate con quelle di nuova liquidazione che hanno importi mediamente più elevati. A questo, nel 2015  si è aggiunto il cosiddetto “effetto Fornero”, che ha determinato un boom delle pensioni anticipate. Ne sono state liquidate 148.540, con un aumento del 74% sul 2014; poiché i lavoratori che non potevano andare in pensione dal 2012, a causa del salto in avanti dei requisiti decisi dalla riforma Monti-Fornero, hanno maturato l’anzianità richiesta solo tre anni dopo.

Più contributi, ma non bastano. Le entrate contributive (sempre nel 2015) sono risultate pari a 191.330 miliardi di euro, con un incremento dello 0,91% rispetto ai 189.591 del 2014, evidenziando così un saldo negativo tra contributi e prestazioni di 26,565 miliardi. Si tratta quindi di un dato tutto sommato fisiologico rispetto all’anno precedente che consente di dare un giudizio positivo sull’andamento complessivo delle gestioni pensionistiche nel 2015, anno in cui, rispetto al 2014, si è avuto un aumento della spesa pensionistica percentualmente minore dell’aumento delle entrate contributive.

Diverso è il giudizio se s’inquadra il disavanzo del 2015 in un arco temporale più ampio, che mostra il preoccupante trend storico dei disavanzi degli ultimi anni.
Ma allora, a quanto ammonta realmente la spesa per le pensioni? Ebbene, il totale delle entrate da contribuzione effettiva di lavoratori e datori di lavoro si attesta sui 172,214 miliardi. Inoltre, se alla spesa pensionistica totale si sottraggono le imposte che lo Stato incassa direttamente - e che quindi sono semplicemente una “partita contabile di giro” e una “non spesa” - il totale si riduce a 168,501 miliardi che, al netto delle integrazioni al minimo (le pensioni che in base ai contributi versati sono inferiore alla soglia minima garantita), porta la spesa a 159,164 miliardi. Il saldo tra entrate e uscite rivela quindi un bilancio previdenziale in attivo pari a 3,713 miliardi di euro, a dimostrazione del fatto che il nostro sistema, grazie alle numerose riforme che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni, è stato stabilizzato. Secondo gli esperti di itinerari previdenziali questo dovrebbe indurre a maggiore prudenza nel proporre tagli alle pensioni, deindicizzazioni varie e contributi di solidarietà.
 
La regionalizzazione del bilancio. Per una corretta comprensione del “tema” pensioni e assistenza, il Rapporto analizza il sistema pensionistico, comprensivo di alcune prestazioni assistenziali, anche a livello territoriale. L’analisi della distribuzione delle diverse tipologie di pensione (anzianità, vecchiaia, invalidità e superstiti) a livello regionale rappresenta un dato importante, dal momento che spesso buona parte degli squilibri deriva proprio dai disavanzi regionali tra contributi e prestazioni e tra pensioni contributive e quelle assistenziali.  Le regioni con la percentuale più elevata di pensioni di anzianità erogate sul totale sono quelle del Nord Italia (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto), mentre gli ultimi posti sono occupati dalle regioni del Centro Sud. Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Piemonte, Veneto e Toscana, erogano il maggior numero di pensioni di vecchiaia rispetto al totale; mentre Campania, Lazio, Sicilia Puglia, occupano i primi posti della classifica per numero di pensioni di invalidità. Guardando ai tassi di copertura, ossia quanta spesa previdenziale è finanziata dai contributi per ogni singola regione, l’unica con un valore positivo è il Trentino con 106,61, seguita dalla Lombardia (con un tasso di copertura pari al 97,11%) e il Veneto con 95,33%. Lazio ed Emilia Romagna si attestano attorno all’87%, mentre tutte le altre regioni registrano un livello inferiore al 75%.

Le dichiarazioni Irpef.  Un dato allarmante emerge infine analizzando le entrate Irpef che contribuiscono al finanziamento del welfare. La gran parte dei 37 milioni di concittadini (redditi da zero a 20mila euro annui lordi) sono a quasi totale carico dell’11,28% dei contribuenti (lavoratori e pensionati) che dichiarano oltre il 52% dell’intero gettito l’Irpef. I redditi dichiarati ammontano a un totale di 817,264 miliardi di euro. Considerando il rapporto tra il numero dei cittadini italiani sul totale dei contribuenti (40.716 milioni), ne risulta che ogni contribuente ha in carico 1,49 cittadini.

Per garantire la sanità a questi primi 28 milioni di italiani, occorre che altri cittadini (contribuenti più fortunati o più onesti) versino 41,3 miliardi, oltre a pagarsi la propria sanità, dato che il Servizio sanitario nazionale, per il 2013, è costato circa 109 miliardi per una spesa pro capite, appunto, di 1.790 euro. Togliendo dal totale di cui sopra i pensionati, restano 11,8 milioni di lavoratori che presentano redditi sotto i 15mila euro l’anno; in particolare, 3,8 milioni di dipendenti e 3,3 milioni di autonomi dichiarano redditi negativi o al massimo fino a 7.500 euro. E’ ovvio che questi 7,2 milioni di soggetti –cui si sommano altri 4,7 milioni che dichiarano in media 11.500 euro l’anno – non matureranno il minimo pensionistico e quindi, in futuro, lo Stato dovrà prevedere esborsi molto alti per pagare pensioni sociali, maggiorazioni o integrazioni al minimo a oltre 11 milioni di futuri pensionati “poveri”. E qui si affaccia il dubbio. Quelli che percepiscono pensioni minime o troppo basse non saranno per caso stati, durante la vita attiva, degli evasori del fisco o dei contributi? 

www.itinerariprevidenziali.it